Il Percorso delle Rane #losapevateche
Tradizione
il percorso delle rane
Lo sapevi che a Vercelli esiste un percorso per visitare la città segnalato da simpatiche rane? Scopri il Percorso delle Rane di Vercellli!
La STORIA
Avete mai fatto caso, camminando per il centro storico di Vercelli, a delle piccole rane davanti alle attrazioni principali della città?
Il “Percorso delle Rane” è un itinerario ideato dal Lions Club di Vercelli, segnato da piccole indicazioni in bronzo
distribuite sui marciapiedi della città, che consente di toccare i punti di maggior interesse artistico del centro storico.
Potrete notare le simpatiche ranocchie davanti ai seguenti siti:
Basilica di Sant’Andrea; Salone Dugentesco; ARCA, Chiesa di San Marco; Chiesa di San Paolo; Torre Vialardi; Chiesa di San Cristoforo;
Chiesa di San Lorenzo; Piazza Cavour; Broletto; Sinagoga; Chiesa di San Giuliano; Casa Centoris; Casa Tizzoni; Museo Francesco Borgogna;
Castello Visconteo; Museo Camillo Leone; Teatro Civico; Palazzo Arcivescovile; Museo del Tesoro del Duomo; Cattedrale di Sant’Eusebio; Seminario Arcivescovile.
Tradizione
ex ospedale maggiore sant’andrea
Una storia lunga 800 anni: struttura di accoglienza per i pellegrini, gli indigenti e gli infermi.
L’ex Ospedale Maggiore Sant’Andrea è oggi uno dei più importanti simboli della Vercelli Medievale.
La STORIA
Nel 1224, quasi in contemporanea con la costruzione della Basilica simbolo della città di Vercelli, il cardinale Guala Bicchieri donò una parte del proprio patrimonio alla realizzazione di un ospizio per forestieri, con il nome di Hospitale Ecllesie nove Sancti Andree de Vercellis.
Inizialmente ideato per accogliere viandanti e pellegrini, l’Hospitale divenne presto anche un rifugio per i poveri e luogo di cura per gli ammalati. All’epoca, erano 14 gli hospitales operativi a Vercelli, ma il Sant’Andrea divenne presto talmente efficiente, da inglobarli tutti e adottare così il nome di Ospedale Maggiore.
Il portico attuale, comunemente noto come Salone Dugentesco, fu eretto alla fine del XIII secolo, e presenta uno dei pochi esempi di pittura piemontese del XIII secolo costituito dalla lunetta che raffigura “Cristo in maestà” con a destra San Pietro e a sinistra Guala Bicchieri, con alle spalle il Sant’Andrea, che presenta al Signore il modello della chiesa.
La struttura, inizialmente nata come chiesa, divenne poi una parte della corsia ospedaliera, ne è prova il monumentale ingresso con una facciata costituita da un pronao a tre archi e con una grande scalinata, elementi tipici di una chiesa.
Tradizione
la Tartufata
La Tartufata oggi è conosciuta come uno dei dolci tipici vercellesi, scopriamo meglio il dolce simbolo delle migliori pasticcerie della città!
Le origini della tradizione
La Tartufata è una torta che non ha precise radici territoriali vercellesi: in realtà si tratta di un dolce la cui presenza e tradizione sono riscontrati in diverse regioni italiane.
Con il passare del tempo, però, la Tartufata ha iniziato ad essere associata sempre più spesso alla città vercellese e all’immagine delle pasticcerie più qualificate.
Che cos’è la Tartufata? Si tratta di un dolce fresco a base di crema Chantilly, Pan di Spagna leggermente imbevuto di bagna alcolica e ricoperto di una soffice foglia di cioccolato.
La Tartufata viene realizzata durante tutto l’arco dell’anno e per questo, come anche il Bicciolano, rappresenta il dolce simbolo per ogni ricorrenza.
Tradizione
la panissa
La Panissa è il piatto più tipico della tradizione popolare vercellese, si tratta di una pietanza a base di riso e fagioli.
Le origini della tradizione
Verso gli inizi del 1400 viene introdotta la coltivazione del riso nel vercellese grazie ai monaci cistercensi che si insediano nelle Grange, fondando nel 1123 l’Abbazia di Santa Maria di Lucedio.
La storia di Vercelli è strettamente legata al riso e proprio il riso non può che essere considerato il re delle tavole vercellesi.
La panissa vercellese è il piatto più tipico della tradizione culinaria
della città di Vercelli, preparato con gli ingredienti classici della gastronomia locale: riso e fagioli, due ingredienti tipici in particolar modo della zona del Vercellese, e il salam d’la duja, un tipico salume
che viene lasciato stagionare in un recipiente di terracotta riempito
di strutto.
Nonostante non ci sia ancora oggi una ricetta unica e riconosciuta, la particolarità della panissa sta nel soffritto di cipolla, lardo e salam d’la duja, nel quale viene tostato il riso, sfumato poi con del vino rosso. Il riso viene cotto insieme al salam d’la duja nel brodo di fagioli e infine mantecato con il formaggio grattugiato.
La panissa vercellese non va confusa con la panissa alla ligure, una polentina di farina di ceci fritta, e nemmeno con la “rivale” novarese, la paniscia, da cui differisce di pochi passi nella preparazione: il brodo della panissa si prepara infatti con i fagioli tipici di Saluggia e salam d’la duja senza cotenna mentre il soffritto è rigorosamente senza burro con l’aggiunta di altro salam d’la duja oltre al lardo.
Storia
giovanni battista viotti
Il famoso compositore e concertista Giovan Battista Viotti nasce a Fontanetto Po, nelle campagne vercellesi, nel 1755.
Le origini della storia
Nel lontano 1755 nasce a Fontanetto Po, parte dell’allora Regno di Sardegna, il piccolo Giovan Battista Viotti. Di umili natali, eredita la passione per la musica dal padre che lo porta prima a studiare a
Torino e poi in Europa, fino a riconoscere nella città di Parigi la
propria musa ispiratrice. Qui infatti grazie alle sue formidabili qualità
di concertista e di compositore, riesce a distinguersi in uno dei
panorami musicali più competitivi dell’epoca.
Dal 1950 a Vercelli si celebra il concorso internazionale di musica “G.B. Viotti” dedicato ai giovani artisti in memoria del grande compositore.
Istituito nel 1950, ha già superato la settantesima edizione ed è attualmente il concorso che vanta il maggior numero di edizioni al mondo, essendo stato celebrato ogni anno, senza alcuna interruzione.
Un’ultima chicca? Studi recenti hanno fatto sorgere alcuni dubbi sulla reale paternità della Marsigliese, affermando che il celebre inno francese abbia in realtà origine da “Tema e variazioni” in do maggiore del compositore vercellese, uno spartito concepito nel 1781 e poi successivamente “adottato” da De Lisle nel 1792 che di fatto ne è considerato l’autore.
Storia
vercelli book
Conservato presso la Biblioteca Capitolare del Museo del Tesoro del Duomo, il Vercelli Book è un importante manoscritto in pergamena che risale al X secolo, scritto in anglo sassone antico.
Le origini della storia
Il Vercelli Book contiene una trentina di componimenti, la maggior
parte in prosa, tutti scritti in anglosassone, uno dei più antichi discendenti dell’odierna lingua Inglese. Insieme ad altri tre codici conservati nel Regno Unito contiene la maggior parte della
produzione poetica redatta in antico Inglese. Un’importanza letteraria
e storica incredibile che ne fa un vero tesoro.
Alcuni dei componimenti, omelie nella fattispecie, presenti nel
Vercelli Book sono uniche e non riportate in alcun altro manoscritto.
Diverse le ipotesi che tentano di spiegare l’arrivo di questo
documento nella città di Vercelli. Si parla di una donazione da parte
di qualche abbiente viaggiatore, probabilmente un Vescovo venuto
da nord che sfrutta la storica ospitalità che da tempo immemore la città riserva ai pellegrini. Non va dimenticato che Vercelli si trova sulla Via Francigena e in epoca medievale questo cammino è particolarmente utilizzato per giungere a Roma. Si narra che potrebbe essere stato lo stesso Sigerico, arcivescovo di Canterbury, da cui prende il nome l’itinerario più conosciuto della Via Francigena, a donare il manoscritto alla città di Vercelli intorno all’anno Mille.
Quel che è certo, contrariamente a quanto possa far pensare la denominazione, è che il nome “Vercelli” non compare mai all’interno del manoscritto e si riferisce puramente al luogo in cui il libro è da sempre conservato.
Storia
l’origine del nome della cittÀ di vercelli
Wehrcelt. Vercellae. Verkelle. Meropoli. Un viaggio attraverso la storia e il mito che si cela dietro l’origine del nome Vercelli.
Le origini della STORIa
La teoria più accreditata per l’origine del nome della città di Vercelli sembra essere “Wehrcelt”, dall’unione delle parole wehr-,
letteralmente “guardia”, e -celt, “celti”, con il significato finale di “avamposto da guardia dei Celti”, il popolo che fonda la città intorno
al V sec. a.C.
Le teorie che però circondano l’origine del nome “vercelli” sono tra le
più disparate. Si parla di Vercellae che deriverebbe dal prefisso ver-,
che significa “importante”, e -cellae, che indica per “centro abitato”.
Una eventuale conferma di questa teoria deriva anche dal fatto che
altri luoghi nelle vicinanze della cittò, avrebbero nel toponimo la
stessa caratteristica. Quali? Per esempio l’antica città di Bucellae, più comunemente conosciuta col nome odierno di Biella, presentando
però il prefisso bu- per indicare un centro abitato di minor importanza.
Verkelle deriverebbe, invece, da una fusione di termini Liguri (qui stanziatisi intorno al 2000 a.C.) e Celtici. Secondo alcuni storici il termine, molto diffuso nella Gallia Cisalpina, indicherebbe zone minerarie sotto sfruttamento, situate alla confluenza di corsi d’acqua e quindi ricche di minerali metalliferi. D’altronde, il fiume Sesia è sempre stato famoso per i suoi giacimenti auriferi.
E Meropoli? Qui si entra nella sfera leggendaria, più che storica… A quanto sembra, la città nacque sotto questo nome, preso dal suo fondatore. Si dice che la città fosse talmente grande da comprendere, oltre all’attuale territorio, anche buona parte del territorio di Borgo Vercelli, dall’altra parte del fiume Cesia (il Sesia). Avrebbe cambiato nome in seguito grazie al Re Beloisio, dominatore di queste terre.
Storia
l’angioletto
di san giuliano
Passeggiando per le vie del centro di Vercelli, è possibile notare uno strano volto, molto simile al viso di un angelo, incastonato nela parte alta di una delle mura della chiesa di san Giuliano.
Le origini della leggenda
Costruita nel XII secolo, San Giuliano è la Chiesa di Vercelli nella quale venivano ordinati i Vescovi prima di prendere possesso dell’Arcidiocesi.
È una chiesa piccola ma incantevole, quasi nascosta tra i palazzi del centro, che reca presioze decorazioni al suo interno con opere di Gaudenzio Ferrari e Girolamo Giovenone.
La Chiesa ha un particolare, molto importante, che spesso sfugge a
chi vi si trova dinanzi: l’angioletto del campanile.
Raggiungendo la Chiesa di San Giuliano da Piazza Cavour e
procedendo su Corso Libertà, circa a 10 metri di altezza, si può
notare un volto in marmo incastonato mella parete.
La credenza popolare lo identifica come un angioletto. In verità è la testa di una statua di origine romana, datata II-III sec. d.C., raffigurante una Minerva.
Era assai d’uso “riciclare” le antiche opere romane per abbellire i palazzi e le chiese medievali. È stata incastonata così in alto affinché sembrasse un angioletto, a scopo apotropaico. Infatti, il suo compito era quello di rivolgersi verso gli spiriti maligni che aleggiavano nell’antico cimitero di San Giuliano, poco distante, per scacciarli.
Leggenda
la torre della
brava figlia
La Torre dei Tizzoni, situata nel centro della città di Vercelli, è conosciuta anche con il nome Torre della Brava Figlia, storicamente legato ad una leggenda.
Le origini della leggenda
La Torre dei Tizzoni si trova in pieno centro a Vercelli ed è parte del palazzo della famiglia ghibellina Tizzoni che risale alla metà del XV secolo. Questa famiglia ha origini antichissime, si stima addirittura
che già nel XII secolo un Tizzoni diventi podestà a Vercelli.
Storicamente, i Tizzoni, di parte ghibellina, sono sempre acerrimi
nemici degli Avogadro, di parte guelfa.
La figura più importante legata alla famiglia Tizzoni nel XII secolo è Pietro Tizzoni, un giovane guerriero che sconfigge i guelfi, guidati
dagli Avogadro, in una battaglia presso Trino, all’epoca occupata ed incendiata nel marzo 1329. Dopo questo sanguinoso scontro viene nominato vicario imperiale Riccardo Tizzoni, potente capo dei
ghibellini vercellesi.
Pochi anni dopo si perde però completamente traccia della famiglia Tizzoni che scompare definitivamente dalla scena politica.
Tuttavia il nome della famiglia Tizzoni rimane legato alla torre vercellese e ad una leggenda che la vede protagonista dietro al nome di “Torre della brava figlia”.
Si dice che Pietro Tizzoni, invaghitosi perdutamente di Maria Avogadro, ordini di rinchiuderla nella torre della sua casa nella speranza di poterla piegare al suo volere. Maria, nota in città per le sue grandi opere di carità, riesce invece resistere alle lusinghe di Tizzoni che le offre denaro e ricchezze in cambio dei suoi favori e grazie alla sua fede, giunge addiritura a farlo pentire di quel gesto, contribuendo così alla riappacificazione delle due famiglie rivali.
Leggenda
gallo di
sant’andrea
In cima all’altissimo campanile di sinistra della Basilica di Sant’Andrea, alto ben 65 metri, svetta un gallo. Difficile notare la sua presenza se non se ne conosce l’esatta posizione eppure a questo gallo sono legate numerose leggende.
Le origini della leggenda
Diversi studiosi ipotizzano che il Gallo in bronzo e rame sarebbe stato collocato sulla sommità del campanile di sinistra mentre su quella destra è stata posizionata la croce di Sant’Andrea nel 1227.
La storia parla di un omaggio all’abate Tommaso Gallo che all’epoca segue, per conto del Cardinale Guala Bicchieri, l’edificazione
dell’antica Abbazia che sarebbe sorta di fianco alla Chiesa. Gallo,
così chiamato per la sua provenienza francese, giunge a Vercelli nel
1224 prima come priore e successivamente come abate di
Sant’Andrea. All’interno della Basilica è presente un imponente monumento funebre a lui dedicato risalente alla prima metà del Trecento.
La leggenda vuole invece che al termine della costruzione della Basilica, un gallo, incredibilmente in grado di volar fin lassù e innamoratosi del panorama vercellese, decise di rimanere per sempre a vegliare sulla città dall’alto. Fu così risoluto nella sua decisione da arrivare a rinunciare per sempre alle sue ali: a ben guardare infatti, non v’è traccia d’ali ma solo una coda dorata.
Esiste, poi, un antico detto popolare secondo cui quando il galletto guarda verso il fiume Sesia si può contare sul bel tempo, mentre quando il suo sguardo è rivolto verso la montagna, è bene prepararsi per la pioggia in arrivo.
Storia
otto ore
in risaia
La contrattualizzazione delle 8 ore lavorative giornaliere rappresenta una conquista importante che in Italia si raggiunge nel 1919, nel Vercellese però si raggiunge già diversi anni prima grazie alle agitazioni popolari guidate dalle mondine.
Le origini della storia
Nella storia del lavoro e della moderna società, la conquista delle 8
ore segna un passaggio fondamentale. Questo vincolo pone infatti
un freno allo sfruttamento del tempo di lavoro di milioni di lavoratori
e lavoratrici, prima definito solo dall’interesse del padrone, e
costringe a ridefinire i limiti del potere di imprenditori e proprietari terrieri, obbligandoli di fatto anche a modernizzare i processi di lavoro per contenere i costi. E’ una grande conquista, si tratta di fatto del riconoscimento per i lavoratori di un diritto fondamentale di cittadinanza sociale e appartenenza ad una collettività. Questa conquista viene sancita in Italia nel 1919 ma pochi sanno che questo obiettivo nella città di Vercelli e nel suo circondario viene raggiunto
molto prima.
Le ragioni di questa anticipazione sono da ricercarsi nelle particolari condizioni sociali, politiche ed economiche del Vercellese. Con la crisi della produzione agricola di fine ‘800 che vede di fatto una prima
globalizzazione dei mercati, molti prodotti vengono importati dall’estero e i lavoratori sono costretti a lasciare le proprie terre per cercare lavoro nelle grandi città.
Proprio nelle risaie si affermano le prime organizzazioni che tentano di contrastare lo sfruttamento del lavoro e supportano diverse agitazioni contadine di fine secolo. Nel 1906, la rivendicazione delle 8 ore diventa il punto focale di queste agitazioni, in particolare degli addetti alla monda, e le proteste dilagano per giorni raggiungendo la città e i paesi limitrofi, sfociando infine in lunghi scioperi. Nonostante gli arresti e i disordini, nel mese di agosto 1906 la protesta arriva a coinvolgere più di 30 paesi del circondario e gli agrari di Vercelli sono costretti a cedere.
Nel 1906, le mondine ottengono la contrattualizzazione delle 8 ore lavorative giornaliere. Per commemorare questa conquista, c’è una targa in centro a Vercelli a pochi passi dal Comune.
Storia
Silvana mangano
e riso amaro
Nel 1949 Vercelli e le sue risaie sono scelte dal regista Giuseppe De Santis come ambientazione per alcune sequenze del film
capolavoro “Riso Amaro”.
Le origini della leggenda
Sono passati ormai più di 70 anni dall’uscita del film cult “Riso
Amaro”, un capolavoro del neorealismo cinematografico per la regia
di Giuseppe de Santis con protagonista l’indimenticabile Silvana Mangano che rimane un emblema dello spirito e dell’immagine
iconica delle terre di risaia.
Questo cult movie è stato girato proprio nella provincia di Vercelli, più precisamente a Cascina Veneria. Si raggiunge percorrendo la strada delle Grange che, imboccata la deviazione per Crova, conduce davanti
ad un grande complesso rurale.
Si tratta della Tenuta Veneria di Lignana, una cascina modello, dove nel 1949 è stato girato il celebre film di De Santis.
Silvana Mangano, protagonista femminile indiscussa della pellicola, è ricordata da tutti i cultori del cinema per quell’immagine che la ritrae con i piedi nell’acqua della risaia, in calze nere a mezza coscia, stereotipo di quella categoria di donne diventate simbolo della civiltà contadina di questa parte della Pianura Padana.
Storia
marcello bertinetti
e lo scherma
Raccontare la storia della scherma vercellese equivale a ripercorrere secoli di storia dello sport: da fine 800 ai giorni nostri, la scuola di schermidori nata nel capoluogo piemontese ha dominato questa specialità sia a livello nazionale che internazionale.
Le origini della storia
Marcello Bertinetti nasce a Vercelli il 26 aprile del 1885. Da molti considerato il padre della scherma italiana, come schermidore
vince due medaglie d’oro, una d’argento e una di bronzo nei giochi olimpici. Diventa però anche arbitro di calcio italiano. Insieme a Luigi Bozino, nel 1906, fonda la Sezione Calcio della Pro Vercelli, di cui è
poi allenatore e giocatore. Da quel momento, proprio la Pro Vercelli, andrà in breve tempo ad imporsi come principale club calcistico
italiano conquistando ben 7 scudetti.
La famiglia di grandi talenti prosegue con Franco Bertinetti, figlio di
Marcello, che, sulle orme del padre, vince due medaglie d’oro nella
scherma ai giochi olimpici di Helsinki (1952) e Melbourne (1956), e Marcello Cito Bertinetti, anch’egli campione italiano di scherma a
spada.
Il Trofeo Bertinetti, una delle manifestazioni più longeve dello sport italiano (è stata ormai superata la 50^ edizione!), viene ideata dal figlio Franco nel 1968 per onorare la morte del padre, mutando spesso formula, ma confermandosi sempre come uno dei più seguiti appuntamenti dello sport vercellese.
Storia
la torre civica
di vercelli
La torre Civica di Vercelli vanta di essere la più antica e la più alta delle torri che si trovano nel capoluogo piemontese.
Le origini della STORIa
In pieno centro cittadino, affacciata sulla piazza del Broletto, un
tempo sede del Comune e ora conosciuta come Piazza dei Pesci,
la torre Civica svetta austera e semplice nella sua forma quadrata, probabilmente dal secolo XII quando si presume sia stata edificata.
Le sue origini tuttavia potrebbero essere ancora più antiche.
Nel XIII secolo viene acquistata dal Comune, questo è il motivo per
cui è anche conosciuta come Torre Comunale. Nel 1377 viene
installato un orologio su di essa, una vera novità per l’epoca,
insieme a tre campane, il cui compito, oltre a battere le ore, era di avvertire i cittadini in caso di pericolo o di assemblee straordinarie. L’orologio rimane sulla Torre fino al 1931.
Con i suoi 38 metri è la più alta delle torri gentilizie, tuttavia in passato superava di gran lunga i 40 metri di altezza. A sovrastare la torre vi era infatti una guglia alta più di 20 metri che sfortunatamente viene abbattuta da un fulmine nel 1821 e mai più ricostruita.
Storia
la torre
dell’angelo di vercelli
Durante l’epoca medievale, Vercelli può vantare a pieno diritto l’appellativo di Città Turrita. Si contano infatti più di 50 torri, ognuna legata al palazzo di qualche importante famiglia locale. L’esempio più iconico di questo periodo “verticale” di Vercelli è la Torre dell’Angelo.
Le origini della storia
Costruita prima del XIII secolo, la Torre dell’Angelo faceva parte di
una costruzione più ampia posta a dominare quella che ora è Piazza Cavour. La Torre presenta una base a pianta quadrata, sulla quale
si innesta una metà superiore a pianta ottagonale in stile tardo
gotico, conclusa dalle caditoie. La zona terminale risale al 1875,
anno in cui vengono aggiunte le merlature in cima.
La Torre dell’Angelo deve il suo nome alla leggenda che la circonda:
si dice infatti che un uomo, disperato e senza soldi, decise di
buttarsi giù dalla Torre per farla finita. Accortosi troppo tardi di aver commesso un errore, si mise a pregare assiduamente finchè un
angelo non venne in suo soccorso.
Agli inizi degli anni ’80 viene effettuato un primo intervento di restauro, date le pessime condizioni in cui versa l’edificio. Questi interventi si sono poi ripetuti nel 2018 riportando la Torre ai fasti di un tempo, rendendola occasionalmente visitabile, e creando un’illuminazione ad hoc per valorizzarne la caratura.
Ogni anno, il 6 Gennaio, la befana (impersonata da un impavido Vigile del Fuoco), si cala dalla Torre lungo un cavo che attraversa tutta la Piazza, lanciando caramelle ai bambini presenti, sottolineando ancora di più quanto la cittadinanza si senta legata alla Torre.
Storia
cooperfisa: fisarmoniche dal 1921
Tra i tanti primati musicali che può vantare Vercelli, vi è la produzione storica di fisarmoniche che accompagna la città dai primi decenni del Novecento.
Le origini della STORIa
“Coupè Armoniche” viene fondata a Vercelli nel 1921. Si tratta di una cooperativa formata da operai specializzati di altre botteghe
artigiane di fisarmoniche che diventano soci lavoratori, unendo la
loro creatività e le loro compteneze. La cooperativa si specializza
nella produzione di fisarmoniche e nella creazione di una timbrica
unica e particolare (“Musette”).
Durante il secondo conflitto mondiale si presenta una profonda crisi
delsettore che, per la maggior parte, produce per il mercato estero. Tuttavia, la Coupè Armoniche continua la propria attività, riducendosi però a soli tre soci lavoratori.
Nel 1981, Pancrazio Aichino ed Emiliano Roviaro, per dare nuovo
impulso all’attività, decidono di affiancare agli anziani artigiani alcuni giovani provenienti dalle Scuole di Avviamento Professionale. In seguito a questa mossa, l’azienda riesce a riconquistare i vecchi mercati offrendo un prodotto di alta qualità e da così vita ad una nuova società “Cooperfisa di Aichino e Roviaro Successori Cooperativa Armoniche”.
Alla morte di Aichino, è il figlio Romeo a succedere dimostrando la stessa passione del padre. Uno dei grandi meriti di Cooperfisa è sicuramente l’aver trasmesso ad un folto gruppo di giovani un mestiere che altrimenti si sarebbe perso.
Oggi Cooperfisa è riconosciuta e apprezzata in tutto il mondo ma soprattutto in Francia, Germania, Portogallo e Brasile.
Tradizione
la Processione
delle macchine
La Processione delle Macchine di Vercelli è una delle tradizioni più antiche e più amate, e torna ogni anno tra le vie della città durante il periodo pasquale.
Le origini della TRADIZIONE
La “Processione delle Macchine” deve il suo nome ai grandi gruppi scultorei, le cosiddette “Macchine”, realizzate in materiali come legno, gesso o cartapesta appartenenti alle varie Confraternite della città
di Vercelli.
La Processione è strettamente legata alla storia delle Confraternite,
un tempo numerosissime a Vercelli. Ogni Confraternita possedeva
una Macchina, a rappresentare uno degli episodi della Passione di Cristo, dall’Orto degli Ulivi fino alla Crocifissione, che veniva portata
in processione per le vie della città da membri delle Confraternite
stesse con i loro costumi tipici.
Originariamente il termine “Macchina” si riferisce alla barella per trasportare gli infermi, passa poi ad indicare il basamento su viene poggiata la statua fino ad arrivare ad indicarne l’intera struttura.
La storia di questa processione Vercellese affonda le sue radici già nella seconda metà del XVIII secolo, ma solamente nel 1833, per porre ordine tra le numerose pratiche indipendenti collegate alle celebrazioni pasquali, si decide di riunire tutte le pratiche del Giovedì e del Venerdì Santo in un’unica processione che parte da Sant’Andrea, come ancora oggi avviene. Alla luce di ceri e fiaccole, la sera del Venerdì Santo, le Macchine sfilano per le vie del centro storico, sorrette da volontari parrocchiani, alpini, associazioni e confraternite, per far nuovamente ritorno in Basilica sotto gli occhi di fedeli e curiosi per la Celebrazione conclusiva.
Una piccola chicca dialettale? In passato, dato che spesso ci si spingeva per trovare un posto migliore da cui seguire la processione, la folla di fedeli veniva chiamata “compagnia d’j arbuton” (compagnia degli spintoni).
Tradizione
le maschere di vercelli:
Bicciolano e bela majin
Le maschere vercellesi del Bicciolano e della Bela Majin nascono intorno al 1700 e ancora oggi rappresentano la tradizione carnevalesca della città.
Le origini della tradizione
La figura del Bicciolano si forma dalla fine del ‘700 quando, in difesa
del popolo vessato dalle tasse, si leva un grido di libertà da parte di Carlin Belletti, abitante del rione porta Milano, detto il Bicciolano. Imprigionato nel Castello di Ivrea, il ritorno a Vercelli di Carlin si
conclude in trionfo, legando il suo nome per sempre agli ideali di
libertà e giustizia.
Da quel momento il nomer diventa leggenda e nel 1809, quando
Vercelli si trova sotto il dominio francese, nascono ovunque spettacoli
di burattini con un nuovo personaggio, sempre pronto a lottare per il popolo e bastonare i potenti: il Bicciolano.
Il suo grido? “Libertè – Fraternitè – Egalitè… lur an carosa e nui a pé” (loro in carrozza e noi a piedi).
Si torna a parlare del personaggio identificativo di Vercelli quando, a metà ‘800, un abitante che lo impersona, Carlo Petoletti, crea una raccolta fondi a favore dei soldati feriti e in difficoltà. Da qui, fino ai giorni nostri, il Bicciolano e la sua consorte, la Bela Majin, promuovono per tutta la durata del carnevale gli ideali di giustizia sociale e aiuto al prossimo con le visite a oltre 180 istituzioni tra scuole, ospedali e case
di riposo della provincia.
Leggenda
il lago sotterraneo
di vercelli
La leggenda narra di lago sotterraneo che scorre proprio sotto la famosissima Abbazia di Sant’Andrea, storico simbolo
della città di Vercelli.
Le origini della leggenda
Nel febbraio 1219 per volere del Cardinale Guala Bicchieri si pone la prima pietra di quello che, otto anni dopo, sarebbe diventato il meraviglioso complesso religioso della Basilica di Sant’Andrea. Un incredibile esempio di fusione tra architettura romanica e gotica, un vero simbolo per la città di Vercelli. Ma quante storie può narrare un edificio così antico? E quante leggende?
Sicuramente la tradizione che più ha preso piede narra di un esteso
lago sotterraneo sopra il quale viene costruita la Basilica. Di orecchio
in orecchio, di bocca in bocca la tradizione si amplia e si colora: i sotterranei diventano un’enorme grotta, il lago pare così grande da rendere necessario l’uso di una zattera per attraversarlo, manca
all’appello solo un traghettatore solitario degno del miglior Caronte di cui ci raccontava Dante nella sua Divina Commedia.
Ma cosa c’è di vero in tutto questo? Una prima risposta ci arriva qualche anno fa grazie all’Associazione Teses e ai suoi studi sull’Archeologia del Sottosuolo. Un’approfondita esplorazione dei cunicoli sotterranei della Basilica conferma la presenza di due grandi ambienti, il primo ormai asciutto e il secondo ancora allagato. Non si sa tuttavia se la destinazione d’uso di questi spazi fosse una gigantesca cisterna d’acqua. O forse questi sono davvero i resti di quell’ambiente fiabesco che un tempo avrebbe ospitato un lago sotterraneo?
Storia
il manicomio
di vercelli
La storia del manicomio di Vercelli: dalla sua istituzione al suo abbadono con l’arrivo della legge Basaglia nel 1978.
Le origini della storia
Quando l’Ospedale Psichiatrico Nazionale di Vercelli (OPN) apre le
porte dei suoi 20 padiglioni è il 1937 ed è uno dei più grandi d’Italia: occupa infatti una superficie di 28 ettari immersa nella natura e ha
un teatro, una chiesa, una biblioteca, una palestra, sale ricreative, cucine, aree bimbi e zona accoglienza ospiti (ubicata all’esterno delle mura, per evitare che i rumori e le voci dei pazienti si sentissero al di fuori).
Pare che nei sotterranei di alcuni padiglioni ci fossero le stanze per i temuti elettroshock e che alcune cure sperimentali, oggi
fortunatamente abbandonate, si praticassero ancora all’epoca.
Con l’avvento della Legge Basaglia, che chiude gli ospedali psichiatrici nel 1978, molti pazienti vengono dimessi, altri rimangono per
completare un percorso di reinserimento in società. La struttura, di proprietà dell’ASL cittadina, funziona come nosocomio fino al 1991,
anno in cui viene inaugurato l’Ospedale di S. Andrea. Oggi l’area è abbandonata e solo un padiglione è occupato dagli uffici dell’ARPA.
Il manicomio di Vercelli è anche conosciuto per un episodio triste avvenuto nel maggio del 1945, al termine della Seconda Guerra Mondiale: l’Eccidio dell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli.
La 182° Brigata Partigiana Garibaldi “Pietro Camana” si dirige allo
Stadio di Novara, campo di prigionia di fascisti, e preleva almeno 75 militi della RSI (Repubblica Sociale Italiana) trasferiti all’OPN vercellese. Di questi, ne vengono uccisi tra i 50 e i 65, un po’ nel complesso, un po’
a Larizzate e altri addirittura a Greggio.
In ricordo dei caduti esistono due monumenti: un memoriale presso il ponte sul canale Cavour a Greggio e un cippo in granito sullo spiazzo antistante l’ospedale psichiatrico di Vercelli.
Storia
napoleone
a vercelli
Un aneddoto molto breve che però non in molti conoscono che riguarda Napoleone e la città di Vercelli.
Le origini della storia
E’ noto che parecchie città in Italia (e non solo in Italia) possiedono almeno un edificio dove ha soggiornato Napoleone. Vercelli, in questo senso, non fa eccezione. L’Imperatore dei Francesi nonchè Re d’Italia, soggiorna infatti più volte nel XIX secolo presso il palazzo Avogadro
di Collobiano e della Motta che si trova in via Duomo.
Nel suo androne è posta infatti un’epigrafe commemorativa che ricorda come l’allora console abbia soggiornato ripetutamente a Vercelli durante la sua seconda campagna d’Italia nel 1800.
Storia
la Chiesa templare
di santa maria d’isana
Questa piccola chiesetta dalla modesta architettura, in località Isana a Livorno Ferraris, cela una storia davvero particolare: pare infatti essere realmente appartenuta ai Cavalieri Templari.
Le origini della STORIa
Gli storici non sono giunti ad una conclusione univoca
sul perchè del nome Isana. Potrebbe ricollegarsi ad un corso
d’acqua sotterraneo. Nelle vicinanze della chiesa scorre in effetti
anche un piccolo rigagnolo nei cui pressi è presente un menhir, una pietra ritenuta taumaturgica ormai da secoli. Qualcuno sostiene addirittura che il luogo dove è collocato questo menhir fosse la sede primaria della chiesa e se fosse vero, come è convinzione comune,
che i Templari detenessero un sapere occulto, i poteri terapeutici di questa pietra potrebbero risalire ad allora. Non era cosa rara nel Medioevo infatti accettare simili convinzioni!
La chiesa di Santa Maria d’Isana in passato è collocata sulla via Liburnasca, una strada utilizzata da mercanti, militari e pellegrini che collega Vercelli con Torino e quindi la Val di Susa e i passi del Moncenisio. Da Livorno Ferraris passa anche la direttrice Aosta-Ivrea, dunque la posizione della chiesa è in effetti strategica come punto
mediano tra Vercelli, Casale Monferrato e Ivrea.
Probabilmente i templari ne prendono possesso quando l’edificio è ridotto a rudere e la riportano a splendore, pare addirittura che qui avessero istituito una “mansio” ovvero un’antica azienda agricola. La sua architettura è davvero unica nel vercellese: la partitura muraria
è infatti realizzata ad opus mixtum, una tecnica edilizia romana. Quando con la bolla papale del 1312 ad opera di Papa Clemente V viene abolito l’Ordine dei Templari, questa “mansio” passa nelle mani degli ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, conosciuti in seguito come Cavalieri di Malta.
Non può però ovviamente mancare una leggenda legata ai Templari che parla di un tesoro d’oro nascosto che i cavalieri lasciano prima della loro scomparsa.
Storia
la Madonna
degli infermi
Nella Chiesa di San Bernardo a Vercelli si trova il Santuario della Madonna degli Infermi, all’interno è possibile osservare l’immagine della Vergine con il bambino, entrambi rappresentati incoronati, un dipinto su tela che risale alla fine del XVI secolo.
Le origini della leggenda
Il culto relativo a questa immagine risale al 1630 quando Vercelli
supera un’epidemia di peste davvero funesta, la stessa che Manzoni descrive nei Promessi Sposi. Secondo la leggenda, il numero di
vittime registrato nella città, di parecchio inferiore rispetto a quello
di altre località, si deve ad un voto solenne che i parrocchiani fanno
alla Vergine il 19 maggio del 1630. A quell’epoca il dipinto non si
trova dove è posto ora ma in una cappella differente.
Quando nel 1835 il colera propagatosi in Piemonte non colpisce
Vercelli, i devoti aumentano a tal punto da rendere la cappella insufficiente adaccoglierli tutti. Si forma così un Comitato Civico presieduto dall’Arcivescovo D’Angennes che decide di dare una sede
più degna in San Bernardo a quello che era ormai spontaneamente diventato un Santuario della Madonna “Salute degli Infermi”. Nel 1836/1837 si procede quindi alla realizzazione dell’attuale cappella
della Madonna degli Infermi dove viene traslato il vecchio altare
mermoreo e l’immagine della Vergine con il Bambino.
Nel 1884 una nuova epidemia risparmia la città di Vercelli e i fedeli aumentano di nuovo esponenzialmente. Diventa quindi chiaro che, nonostante il precedente ampliamento, le dimensioni del Santuario fossero ancora inadeguate. Così il parroco dell’epoca, grazie ad una colletta pubblica molto partecipata, raccoglie i fondi necessari per intraprendere importanti lavori di ampliamento: la Chiesa è dotata di una statua dorata della Madonnina, viene aperta una seconda porta d’ingresso e sono compiuti molti altri lavori in stile neoromanico sotto la direzione dell’architetto Giuseppe Locarni.
Questo è il motivo per cui la Chiesa ha ancora oggi due nomi: dalla facciata originaria si accede alla chiesa di San Bernardo mentre dall’ingresso laterale si accede alla struttura neoromanica chiamata Santuario della Madonna degli Infermi.
Storia
la Sindne
a vercelli
La tappa della Sindone a Vercelli : il lenzuolo di lino conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l’immagine di un uomo che secondo varie fonti potrebbe essere Gesù Cristo, passa dal capoluogo vercellese.
Le origini della leggenda
Nel Medioevo, la preziosa reliquia è custodita dai Savoia. Alla fine
del Quattrocento, la capitale del ducato di Savoia si trova a
Chambéry, ed è qui che la Sindone viene custodita fino al 1536.
Quando, negli anni seguenti, il Ducato è occupato per la maggior
parte dai francesi, i Savoia si spostano a Vercelli, città che all’epoca
è ben fortificata. Quisono trasferiti anche il Senato, la Corte dei Conti,
la Zecca ed il tesoro personale del duca, che comprende la Sindone.
Ed è qui che la storia della preziosa reliquia e della città di Vercelli si incontrano.
Nel 1553 i francesi arrivano fino a Vercelli e, a sorpresa, il 18 novembre, occupano la città saccheggiando gli arredi sacri della chiesa di S. Eusebio. Il canonico di S. Eusebio, che a quell’epoca è Claudio Antonio
Costa di S. Giovanni della Porta di Savoia, accortosi del pericolo, riesce a nascondere sotto il suo mantello la cassetta in cui è custodita la Sindone e la porta in salvo nella sua abitazione.
Pochi giorno dopo, i francesi vengono scacciati e, non appena la città torna libera, la Sindone è mostrata ai cittadini nella piazza Maggiore di Vercelli, oggi conosciuta come Piazza Cavour. Nel 1560, la Sindone viene esposta nella città di Vercelli ancora una volta, in occasione della visita in città del duca Emanuele Filiberto e di sua moglie sempre in Piazza Maggiore, più precisamente dal balcone della confraternita di S. Nicola. Quando viene poi firmata la pace di Cateau-Cambrésis nel 1559, la corte dei Savoia fa ritorno a Chambéry e, qualche anno dopo, il 4 giugno 1561, viene portata lì anche la Santa Sindone.
Storia
la madonna
dello schiaffo
La statua della Madonna dello schiaffo è custodita all’interno del Duomo di Vercelli ed è legata a diverse leggende.
Le origini della storia
L’antica statua della Madonna dello schiaffo è stata ricavata da un
unico pezzo di marmo bianchissimo e si stima risalga intorno al XIII secolo. La statua è posta all’interno del Duomo di Vercelli, su uno splendido altare barocco in un piccolo santuario che corrisponde alla cappella terminale della navata sinistra.
Qual è la particolarità di questa statua? Impossibile non notare che
la Vergine presenta una vistosa macchia rossa sulla guancia destra, mentre il bambino un segno più piccolo in fronte. La tradizione
popolare, per anni, ha attribuito il segno ad uno schiaffo miracolosamente rimasto impresso.
Diverse le storie che si raccontano a supporto di questa tesi.
La più famosa pare risalire al 1600, epoca in cui un certo Raroto, un popolano col vizio del gioco, estremamente adirato per aver perso una grossa somma di denaro, colpisce il volto della Vergine con un violento schiaffo che fece comparire quel livido scuro che ancora oggi rimane.
Qualcuno addirittura narra che la statua abbia iniziato a sanguinare spontaneamente e proprio il sangue lascia quel segno rosso sulla guancia. Da allora, la statua è conosciuta come Madonna dello Schiaffo, diventando meta di devozione in particolare in occasione di epidemie o calamità di varia natura.
Storia
la famiglia
avogadro
Ripercorriamo insieme la storia di una delle famiglie più importanti di Vercelli: gli Avogadro.
Le origini della STORIa
Quando si parla di famiglie medievali a Vercelli, non si può non mezionare la famiglia Avogadro che ebbe davvero uno stretto
legame con la città.
La presenza di questa famiglia è attestata fin dal XI secolo, il
nome deriva dalla professione di famiglia che era tramandata di
padre in figlio: l’avvocatura, svolta soprattutto attraverso il titolo
di Vescovo della Diocesi di Vercelli. Grazie a questa posizione, nei
secoli XII e XIII, la famiglia diventa sempre più potente, allargando
i suoi possedimenti nei territori vercellesi, biellesi e novaresi.
Simbolo di tale potere è la Torre degli Avogadro dalla
riconoscibilissima pianta ottagonale che si può osservare in Via Verdi. Costruita a partire dal 1266, si discosta dalle altre strutture turriformi vercellesi per la cornice a marcapiano presente a tre quarti d’altezza
e l’assenza di caditoie, non ancora entrate nello stile costruttivo
dell’epoca. Durante alcuni lavori ottocenteschi di restauro, che ne hanno trasformato alcune parti, viene ritrovata intatta la sepoltura verticale di Simone Avogadro da Collobiano, condottiero e signore di Vercelli; l’armatura e la spada sono passati all’Armeria Reale, donati dalla Città.
L’esponente più illustre di questa casata, data l’importante caratura internazionale, è Amedeo Avogadro, Conte di Quaregna e Cerreto. Laureato in diritto canonico a soli vent’anni, ben presto si affeziona alla fisica e alla chimica; suo, infatti, è il contributo fondamentale che permette una prima distinzione tra atomi e molecole e, soprattutto, la nota Legge di Avogadro: “volumi uguali di gas diversi, alla stessa temperatura e pressione, contengono lo stesso numero di molecole”.
Grazie ai suoi studi, si è riuscito a determinare la “mole” come una delle sette unità fisiche fondamentali.
Leggenda
Il santurio della madonna
delle vigne
A poca distanza dal Principato di Lucedio, nel borgo di Trino, sorge il Santurio della MAdonna delle Vigne. I misteri che circondano questa costruzione, immersa nel verde e abbandonata, sono molteplici.
Le origini della leggenda
Costruito nel 1696, Il santuario dedicato al Santo Nome di Maria, comunemente chiamato Madonna delle Vigne, viene sconsacrato il
1784 con bolla papale da parte di Papa Pio VI in seguito alle storie
dell’occulto e influenze diaboliche che dominano la reputazione
dell’area intorno a Lucedio. O almeno, queste sono le notizie ufficiali.
In realtà, numerose ricerche in tempi moderni hanno fatto emergere come la Chiesa potrebbe non essere stata affatto sconsacrata e,
anzi, come sia stata anche restaurata più volte nel corso dei secoli. Sorgerebbe infatti spontaneo chiedersi come mai prendersi l’incarico
di restaurarla se fosse stata abbandonata a sé stessa e sconsacrata.
All’interno della Chiesa, nonostante negli anni sia stata depredata di qualsivoglia oggetto di valore, si trova una lapide in marmo
con inciso il nome di un benefattore, Mons. Giovanni Gamberone; egli
fu Vescovo di Chiavari tra il 1911 e il 1916, perciò in età ben posteriore
alla data storica di abbandono del luogo. Una stranezza che porta a
riflettere.
Tema di dibattito molto più evocativo nei racconti sul Santuario però rimane il cosiddetto “Spartito del Diavolo”.
Data la poca disponibilità di spazio nel Santuario, la Chiesa presenta un affresco di un organo a canne, non potendo permettersi il lusso di averne uno reale. Sul suddetto affresco è rappresentato uno spartito che presenta una particolarità interessante: le note, infatti, partono solo dal secondo pentagramma disegnato, anziché dal primo. Seguendo alcune dicerie popolari, si vocifera che suonando queste note da destra verso sinistra e dal basso verso l’alto, verrebbe evocato il Diavolo in persona, incarcerato da tempo immemore nei sotterranei della Chiesa.
Un insieme di curiosità che portano a mille e più domande, per un luogo avvolto nel mistero che conserva il suo fascino dopo lungo tempo.
Storia
la battaglia
dei campi raudii
La battaglia dei Campi Raudii è anche conosciuta come battaglia di Vercelli.
Le origini della storia
“Senatus! Nuntio vobis ut nostrae legiones ad Vercellas Cimbrorum exercitum pervicerunt omnino!”
Non sappiamo se questa frase sia stata pronunciata davvero.
Quello che sappiamo per certo è che, il 30 Luglio del 101 a.c., o per
dirla alla romana ante diem tertium kalendas sextilis (Agosto si
sarebbe chiamato così solamente un secolo dopo) annum 653 ab
Urbe condita, un esercito invasore del popolo dei Cimbri, forte di all’incirca 210.000 unità tra fanteria e cavalleria, si trova a
fronteggiare 50.000 uomini delle legioni romane guidate da Gaio
Mario, Quinto Lutazio Catulo e Lucio Cornelio Silla.
La cavalleria dei Cimbri, accecati dalla nebbia che spesso avvolge la nostra terra, viene sorpresa e sbaragliata dalla cavalleria romana,
che la costringe a ritirarsi tra i ranghi della fanteria germanica. Successivamente le fanterie si trovano a fronteggiarsi in uno scontro durissimo: da una parte, l’imponente quantità di uomini a
disposizione del condottiero Cimbro Boiorix; dall’altra, la tattica
militare e la disciplina che contraddistinguono l’abilità campale
romana.
E’ ricordato come un massacro. I Cimbri contano più di 140.000 morti e all’incirca 60.000 prigionieri, compresi donne e bambini al seguito dell’esercito, che vengono portati in catene a Roma per il trionfo del generale Mario e venduti come schiavi. Le perdite romane, secondo le fonti storiche citate da Plutarco nelle sue “Vite parallele”, assommano a circa 1.000 unità. Questa battaglia pone un freno al desiderio di conquista della ricca terra italiana da parte dei popoli teutonici. O almeno, per quel momento.
Fonti storiche molto accreditate pongono abbastanza sicuramente il luogo della battaglia a 5 Km da Vercelli, più o meno nel territorio ora occupato da Borgo Vercelli; tuttavia, negli ultimi anni pare che un nuovo luogo, sempre nella Provincia di Vercelli, possa essere stato il vero teatro dello svolgimento della battaglia.
Pare poi che ad uno generali che guidavano le legioni romane, Quinto Lutazio Catulo, sia stato dedicato, nel luogo della battaglia, un monumento per la sua abilità militare, dando il nome di “Catuli Ara” (Altare di Catulo) alla città lì vicina. Questo nome, secondo alcuni, si presta ad interpretazione etimologica del nome di Gattinara.
Storia
I FAGIOLI
DELLA PROVINCIA
In provincia di Vercelli la produzione di fagioli è di gran qualità e due sono le varianti principali di fagiolo coltivate: il fagiolo di Saluggia e il fagiolo di Villata.
Le origini della STORIA
A Saluggia e nei comuni limitrofi di Cigliano, Livorno Ferraris e Crescentino, si coltiva un esemplare di fagiolo inserito tra i PAT – Prodotti Agroalimentari Tipici – del Piemonte. Seminato tra
Giugno e Luglio, dopo la raccolta dei cereali, la pianta del fagiolo
serve a ridare sostanze nutritive a un terreno ormai sfruttato
e povero. Diversamente dai suoi cugini coltivati nel resto del Paese, questa pianta raggiunge al massimo un’altezza di mezzo metro e fruttifica precocemente, tant’è che già intorno a Settembre/Ottobre
è possibile raccoglierne i frutti.
A Villata, invece, si coltiva un esemplare che rimane di colore più
scuro, così da essere denominato “Fagiolo Rosso di Villata”. La sua
caratteristica è la difficoltà a legarsi ai tutori artificiali, pertanto
viene coltivato insieme al mais. Così facendo, la pianta del fagiolo si avvinghia al suo compagno che lo sorregge e lo nutre, raggiungendo fino a due metri di altezza.
La testimonianza legata al fagiolo di Villata più datata risale al 1738 e riguarda un matrimonio finito male. Il documento era infatti inserito in un faldone di liti giudiziarie tra due famiglie di Villata: allegata alla testimonianza giudiziaria c’era una distinta di spese sostenute per il pranzo a carico della famiglia della sposa. Oltre alle spese c’era anche il menu con “la paniscia cun i fasoi grosc nustran e salam vec” (la panissa con i fagioli grossi nostrani e il salame vecchio).